
Vigneto bio, una chance da cogliere
Roma (14 luglio 2020) – Il mercato del vino bio continua a tirare, soprattutto quello destinato all’esportazione, ma il vigneto italiano si è fermato, con un incremento annuo che non supera l’1%, mentre quello francese, grazie anche alla spinta di azioni nazionali come il progetto Ecophyto o il Piano filiera vino, cresce ad un tasso del 16%. Questo il quadro che emerge dalla videoconferenza organizzata dall’ente di certificazione Suolo e Salute, il più rappresentativo (25mila ettari su 108mila e 585 cantine certificate su 2800) nel settore del vino bio.
“Perdiamo chance importanti – fa notare Alessandro D’Elia, direttore dell’ente di certificazione Suolo e Salute – soprattutto adesso che le aziende vitivinicole italiane devono fare fronte alle conseguenze economiche dell’emergenza covid 19». Coniugare la qualità del made in Italy con la tensione etica del bio sarebbe invece, secondo D’Elia, il modo migliore per intercettare la forte attenzione dei consumatori internazionali sul tema della sostenibilità, soprattutto delle produzioni enologiche. «Per uscire da questa situazione occorre investire di più sui servizi, soprattutto sull’assistenza tecnica e commerciale, per aiutare le aziende bio a raggiungere i mercati esteri”.
“Il bio non è più un alibi – dichiara Mirko Pioli di Isvea, azienda leader nel campo dell’analitica enologica: la qualità deve essere comunque al top, anche perché occorre misurarsi con referenze di eccellenza di brand leader che hanno deciso di puntare sul bio ottenendo con le proprie produzioni punteggi elevatissimi”.
Pioli nella sua relazione ha messo in luce come la recente bozza di revisione del Decreto ministeriale 309 del 2011, con le nuove soglie concesse per la rilevabilità dei fosfiti nelle materie prime e nel vino, consenta di risolvere, appena pubblicato, quella che è la problematica più avvertita («8 telefonate su 10 che arrivano ad Isvea riguardano questa contaminazione») legata anche al fatto che le presenze di etilfosfonato possono crescere nel tempo, nel corso dell’affinamento del vino, a causa di reazioni tra alcol e fosfiti.
Un altro elemento che può offuscare il fascino del bio deriva dall’organizzazione burocratica della cantina, con i numerosi adempimenti necessari e la complicata gestione della documentazione ufficiale. “La digitalizzazione e il registro telematico – sostiene Salvatore Fiore, agronomo – agevola il compito degli enti di controllo, facilitando i controlli documentali anche in remoto, ma complica un po’ la vita alle aziende, costrette ad annotare ogni operazione”.
“Affascinante” invece, secondo Maria Magagna, coordinatrice dell’Ufficio approvazione etichette di Suolo e Salute, il tema dell’etichettatura del vino biologico. “Una tematica dinamica e in continuo divenire, grazie ad una normativa in costante aggiornamento”. Le procedure di esportazione verso il ricettivo mercato statunitense devono tenere in debita considerazione l’accordo di equivalenza Ue-Usda, in alcuni casi più restrittivi rispetto alla normativa europea. In particolare per quanto riguarda il livello massimo di solforosa nel prodotto finito (100 ppm) e nel divieto ad utilizzare metabisolfito. In compenso negli Usa è ancora consentito vino non bio, ma prodotto con uve biologiche (una classificazione che in Europa non esiste più dal 2012).
“La competenza – conclude Paola Armato, presidente della Federazione Ordini agronomi della Sicilia – è un ingrediente determinante per produrre vino bio e gli agronomi hanno un ruolo e una responsabilità decisive, non solo in funzione della loro competenza normativa e tecnica, ma anche per il contributo nelle necessarie garanzie di tracciabilità e sicurezza per i consumatori”.
Alessia Capeccioni