• comunicazione@enpaia.it

  • 800 24 26 24

Non c’è cooperazione senza partecipazione attiva del lavoratore

Oggi il mutualismo rappresenta la quinta essenza del fare impresa. Un modello che pone come capisaldi la partecipazione di tutti gli stakeholder e una maggiore attenzione alla sostenibilità socio-ambientale. 

di Maurizio Gardini, Presidente Confcooperative

La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa è uno dei cardini del mutualismo. Uno degli elementi costitutivi, senza partecipazione attiva non può esserci vera cooperazione. Tre dei sette principi cooperativi contenuti nella dichiarazione di identità cooperativa, approvata dal 31esimo Congresso dell’Alleanza Cooperativa Internazionale di Manchester nel 1995, richiamano proprio il tema della partecipazione. Li ripropongo per sottolinearne la straordinaria attualità. Il secondo principio stabilisce che “Le cooperative sono organizzazioni democratiche, controllate dai propri soci che partecipano attivamente nello stabilire le politiche e nell’assumere le relative decisioni. I rappresentanti eletti sono responsabili nei confronti dei soci. Nelle cooperative i soci hanno gli stessi diritti di voto (una testa, un voto)”,  contrariamente alle società di capitali – aggiungo – dove la partecipazione è correlata alle quote di capitale sociale detenute. Il terzo principio prevede che: “I soci contribuiscono equamente al capitale delle proprie cooperative e lo controllano democraticamente. I soci, di norma, percepiscono un compenso limitato, se del caso, sul capitale sottoscritto come condizione per l’adesione ed allocano il surplus per qualunque dei seguenti scopi: sviluppo della cooperativa possibilmente creando delle riserve, parte delle quali almeno dovrebbe essere indivisibile; benefici per i soci in proporzione alle loro transazioni con la cooperativa stessa, e sostegno ad altre attività approvate dalla base sociale”.

Infine, il settimo principio afferma che le “cooperative lavorano per uno sviluppo sostenibile delle proprie comunità attraverso politiche approvate dai propri soci”. Queste affermazioni, scritte quasi 30 anni fa, sono diventate centrali nel dibattito economico nelle principali economie occidentali. La cooperazione fin dalla sua nascita si è fatta portatrice di una visione dell’economia e dell’impresa che oggi è rivendicata come patrimonio comune. Un modello che mette la persona al centro dell’agire economico, con il suo essere impresa e il fare economia lontano dai dogmi del pensiero dominante. Oggi la cooperazione rappresenta la quinta essenza del fare impresa secondo una visione contemporanea che fa delle partecipazione di tutti gli stakeholder, dell’attenzione ai temi della sostenibilità socio ambientale, i principali capisaldi. Il protagonismo dei lavoratori spesso diventa assoluto, anzi vitale per dare continuità alla stessa impresa. E anche in queste occasioni la forma più adatta, quella a cui si fa maggiormente ricorso, è la cooperativa.

Negli ultimi 35 anni in Italia sono nate 320 impese recuperate da lavoratori, workers buy out, che rischiavano il licenziamento per cessata attività. Imprese rigenerate che hanno permesso di salvare non solo posti di lavoro ma anche la cultura del saper fare di cui anche l’occupazione è espressione. Quel saper fare sedimentato giorno dopo giorno, codificando l’intuizione, riducendo a pratica replicabile un sapere che fino ad allora era unico, continuando a generare cultura del lavoro e il rispetto della dignità di chi, con ruoli diversi, di quella cultura è promotore e protagonista. Nella quasi totalità dei casi le imprese recuperate hanno assunto la forma della cooperativa. Coerente alla sua natura, la cooperativa ancora una volta si è rivelata lo strumento migliore per organizzare in forma imprenditoriale coloro che si uniscono per soddisfare un bisogno comune. Il territorio che esalta l’autoimprenditorialità, trasforma un lavoratore in imprenditore di se stesso, non aspetta interventi dall’alto, ma prende in mano le sorti del suo destino.

Nei workers buy out ritroviamo l’essenza dal mutualismo, del fare impresa avendo come bussola il bisogno e dove il profitto è mezzo e non fine. Ma ritroviamo anche il coraggio di ripartire, di rischiare, di credere nelle proprie capacità e di poter contare su quelle di chi con noi condivide la stessa sfida. Di continuare a coltivare, nonostante tutto, la speranza. Un inno all’ottimismo. Dopo due anni di pandemia e una guerra che mostra ogni giorno le mostruosità di cui l’uomo è capace, sentiamo il bisogno di credere nell’ottimismo della volontà, di volgere lo sguardo a favore di chi rischiando tutto e nonostante tutto ha avuto il coraggio di investire sul futuro, grazie al suo talento, al suo impegno e al suo coraggio. Se le diverse accezioni di sostenibilità, da quella sociale a quella ambientale, hanno assunto un ruolo di bussola per le imprese, guidano le scelte, condizionano gli obiettivi sia di breve che di lungo periodo, riuscendo ad avvicinare sempre più quelle capitalistiche ai principi e all’agire di quelle mutualistiche, a noi non può che fare piacere. E non solo perché ci permette di dire con malcelato orgoglio, “avevamo ragione noi.” Ciò che a noi sta cuore non è la rivendicazione di un primato, ma quella di un pensiero, di una visione. Eravamo sicuri di seguire la direzione giusta anche quando il nostro andare era considerato controcorrente. Alla cooperazione, quella vera, ciò che sta realmente a cuore è l’emancipazione delle persone dal bisogno con risposte che puntano sull’auto organizzazione e quindi sulla partecipazione diretta, sia nella lettura del bisogno che nell’organizzazione della risposta. Ci può essere partecipazione più totalizzante, sostenibile e inclusiva di questa? Che nell’agroalimentare oltre che sublimare il rapporto con il socio conferitore realizza una filiera tre volte italiana: per prodotto, produttori e territorio. Un filiera di eccellenza e di qualità tutta italiana. Tutta cooperativa.