
L’insostenibilità dell’inverno demografico in Italia e nel mondo
Il nostro Paese occupa la seconda posizione nella graduatoria della longevità. Preceduti solo dal Giappone, che ci sopravanza sempre di circa un anno, e con un discreto vantaggio su tedeschi e spagnoli
Lo scorso mese di aprile l’Istat ha diffuso, come di consueto, il Report annuale degli indicatori demografici per l’anno appena passato, documento che costituisce il bilancio di consuntivo delle dinamiche relative alle principali variabili caratterizzanti della popolazione residente.
Le tendenze demografiche normalmente non procedono con scarti improvvisi, né da un anno all’altro segnano inversioni di percorso, il loro è più un “festina lente” ma non per questo è meno potente. E’ ovvio che un lento, seppure imponente, andamento non richiama normalmente le forti attenzioni mediatiche che usualmente bruciano, con immediato scatto, curiosità/variabili di “rilevanza anche più breve” ma esaltandone picchi e scarti intensi e improvvisi.
Cogliere le tendenze demografiche è però essenziale, sempre che si coltivi una naturale curiosità con riguardo alle cause profonde del nostro presente e quindi del futuro.
L’Italia nel 2022
Al 1° gennaio ’23, la popolazione residente nel nostro Paese conta circa 58 milioni e 851 mila individui. Rispetto allo scorso anno mancano all’appello circa 179 mila unità (ovvero 3 persone ogni mille). L’evento non è nuovo visto che asseconda la tendenza di riduzione demografica già iniziata nel 2014 e mai interrotta.
La contrazione della platea residente deriva da un saldo naturale che risulta negativo per circa 320 mila unità, ottenuto per l’anno come differenza tra le nascite, pari a 393 mila, e i decessi, circa 713 mila. Ai fini del conteggio del bilancio della popolazione, al saldo naturale va poi integrato il saldo migratorio (differenza tra migrazioni ed emigrazioni), che però nell’anno ha compensato solo parzialmente lo squilibrio di quello naturale.
Nel 2022, la popolazione oltre che meno numerosa è anche risultata “più anziana”.
Il processo di invecchiamento è difatti proseguito: nel 2010 i circa 60,3 milioni di residenti del nostro Paese avevano mediamente 43 anni, mentre i circa 58,8 milioni individui oggi presenti hanno in media 46,4 anni. Tale risultato, a livello mondiale, ci colloca saldamente al terzo posto del podio alle spalle del Giappone e della Germania. Si consideri che ad oggi l’età media del continente africano è di poco superiore ai 18 anni e che il 60% della popolazione mondiale è under 30 anni, sempre in media.
Nel corso dell’ultimo tredicennio abbiamo quindi perso nel complesso circa un milione e mezzo di residenti. Nello specifico, continua il calo degli under-quindicenni (oggi il 12,5% della popolazione complessiva) e delle persone con età compresa tra i 15 e i 65 anni (la platea in età lavorativa, che rappresenta il 63,4 del totale), mentre continua ad aumentare il numero degli ultra-sessantacinquenni, la cui importanza relativa supera il 24%.
L’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra gli over 65 e gli under 15 anni, è particolarmente adatto per sintetizzare ed evidenziare platealmente l’impressionante scorrimento lungo le classi di età: ogni 100 under 15 nel 2010 vi erano 144 over 65, nel gennaio 2023 invece se ne trovano 193.
L’anzianità del mediano
Per meglio comprendere le velocità delle dinamiche d’invecchiamento di una popolazione nel tempo e mediante la comparazione internazionale valutarne l’eventuale eccezionalità, può aiutare l’osservazione dell’età mediana. Con questo indicatore si punta sull’età che divide la popolazione in due parti uguali di modo che il numero dei più giovani, ovvero quelli con età inferiore alla mediana, coincide con il numero dei più vecchi, ossia quelli con età al di sopra del dato mediano. Ne deriva che tanto più è elevata la mediana tanto più è vecchia una popolazione, sia nel confronto temporale sia in quello tra popoli di paesi diversi.
La Tabella 1, nel merito, ci suggerisce che se nell’anno 2000, mezza popolazione mondiale aveva meno di 26,3 anni, nel 2020, proprio per la velocità con cui corre l’invecchiamento, per selezionare la mezza umanità più giovane bisognava arrivare ai 30,9 anni; e che, ancora, in tendenziale previsione, nel 2050 il “mediano” del globo dovrebbe avere 36,2 anni. L’invecchiamento è dunque un fenomeno globale e non solo nazionale, anche se si può rilevare per il nostro Paese un già avanzato grado di maturazione. In Italia, infatti, già nel 2000 la metà dei residenti aveva festeggiato i 40 anni e mentre nel 2020 la mediana si colloca sui 47,3 anni. Di questo passo, nel 2050 si stima che la metà degli italiani avrà superato i 53,6 anni e, presumibilmente, nelle feste di compleanno, almeno in quelle meno coraggiose, potrebbero tornar di moda i balli lenti.
Per tutto il periodo considerato il nostro Paese occupa la seconda posizione nella graduatoria della longevità: siamo battuti solo dal Giappone, che ci sopravanza sempre di circa un anno, e con un discreto vantaggio su tedeschi e spagnoli. Le differenze riscontrabili nell’età mediana, come ogni altra grandezza demografica, riflettono e nascondono molte variabili causali: un invecchiamento crescente può infatti dipendere da una scarsa natalità, da un miglior servizio sanitario, da un buon sistema di welfare, da un maggior benessere. Non sempre però si deve pensare che il generale invecchiamento segnali condizioni di benessere diffuso: può anche derivare infatti dalla caduta della natalità/fecondità, da un qualcosa che comprime la volontà di accrescere la prole. Potrebbe evidenziare il ritardo nell’acquisire una sensazione di stabilità socio-economica di vita, la percezione di precarietà lavorativa ed economica, un accesso occupazionale ancora limitato per le donne, la mancanza di servizi adeguati di sostegno alle conduzioni familiari e tanto altro.
Nel caso della Francia, ad esempio, sono migliori politiche a sostegno della natalità che fanno “invecchiare più lentamente” i francesi. Anche i tedeschi hanno, in parte, imboccato lo stesso percorso nell’ultimo decennio, o meglio ne hanno intrapresi due: da una parte hanno rafforzato l’investimento sui bambini e i ragazzi, riconoscendone il valore sociale e rafforzando il sostegno alle famiglie che effettuino la scelta di un figlio aggiuntivo, dall’altro, lavorando sull’integrazione delle immigrazioni, pianificando accessi lavorativi di migranti qualificati con famiglia al seguito, perseguendo così anche un obiettivo compensativo di breve periodo. Nell’ultimo decennio, la popolazione tedesca è comunque passata da 80 a più di 83 milioni, cifrati nel 2022 (nel merito, va ricordato il forte contributo dell’immigrazione, con il picco del 2015 dovuto alla gestione diretta di un forte flusso di rifugiati siriani), pur avendo nello stesso periodo, nella composizione per classi di età perso circa un milione di ragazzi under 20.
Il tasso di fecondità in Italia e nel Mondo
Nel 2022, in Italia, dunque, ogni 1000 abitanti si sono verificate 7 nascite e più di 12 morti, per cui nell’anno il Paese ha perso circa 5 persone ogni 1000, solo parzialmente compensate da un positivo saldo migratorio (+2 per mille).
La sfavorevole dinamica demografica è stata trainata, come già detto, da un saldo naturale negativo (numero dei decessi superiori alle nascite). La negatività del tasso di crescita naturale è nel nostro Paese strutturale dal 1993 e nel 2022 riflette un livello medio di fecondità pari a 1,24 figli per donna. Siamo ormai lontani dagli anni del baby boom, quando quel livello risultava più che doppio: nel 1964 superò infatti i 2,7 figli per donna, mentre nel 1997 già si registra un punto di minimo collocandosi al di sotto di 1,2 figli.
Il dato più recente è comunque ben al di sotto del “grado di sostituzione equilibrata” della popolazione. In merito, va considerato che l’equilibrio demografico generazionale dovrebbe riflettere una natalità media annua pari a 2,1 figli per donna (almeno secondo le indicazioni generali dettate dall’ONU). D’altra parte, c’è da osservare che molti sono i paesi che da qualche decennio sono entrati nel cosiddetto inverno demografico: sicuramente tutti quelli a industrializzazione matura, ma non solo.
Quello che per il nostro Paese può risultare preoccupante è però l’infausta congiunzione che vede il Paese con uno dei più elevati livelli di debito pubblico progressivamente poggiare il fardello su spalle tendenzialmente sempre più anziane, ovvero su componenti che usualmente hanno più necessità di welfare e assistenza rispetto alle potenzialità che possono esprimere per il finanziamento dello stesso.
La Tabella 2 offre una panoramica del tasso di fecondità registrato e previsto dalla Population Division dell’ONU per i diversi Continenti e per alcuni specifici Paesi (fonte: World Population Prospects, ultime annualità).
Considerando gli indici riportati nella tabella e la distribuzione della popolazione tra i diversi continenti si può rilevare che se nel 2000 il 40% circa dell’umanità viveva in Paesi con un tasso di fecondità inferiore a quello di “equilibrio”, nel 2020 tale quota già raggiunge il 45% mentre nelle previsioni per il 2050 ben il 75% della popolazione mondiale si troverà in quella condizione. E’ evidente che nel prossimo trentennio la fase di rallentamento della popolazione aumenterà. Per un singolo paese ciò può non avvenire perché in contemporanea potrebbe ridursi la mortalità o aumentare il flusso migratorio, ma nel giro di pochi lustri anche lì arriverà l’inverno, visto che già nel tempo di due generazioni si comincerà a sentire la riduzione del numero di donne in età riproduttiva.
…sogno California…
Situazione ancora diversa è quella degli Stati Uniti, lì la tendenza all’invecchiamento è rallentata dai flussi dei migranti dal centroamerica.
L’ultimo censimento, quello del 2020 registrava in circa 331,5 milioni i residenti statunitensi, a fronte dei 308,8 milioni del Censimento 2010. Nel decennio, una crescita di 22,7 milioni di cittadini corrispondente a circa lo 0,7% medio annuo, ovvero uno dei più bassi risultati della storia americana. L’inverno demografico interessa comunque sicuramente anche gli US.
Negli US, considerata anche l’assenza di politiche dedicate alla natalità, un ruolo determinante l’ha sempre giocata l’immigrazione (latinos e hispanics), un ruolo che solo recentemente si è attenuato in relazione ai blocchi trumpiani e alla stagnazione indotta dal Covid.
Nel complesso, comunque un leggero vantaggio sia rispetto all’età mediana, sia rispetto al tasso di fecondità, sembra che il paese riesca a mantenerlo nei confronti dei grandi competitor: la Cina, ad esempio, si è già avviata in un rapido percorso di invecchiamento e dall’aprile del 2023 ha subito il sorpasso indiano per la popolosità (India che comunque impensierisce poco, visto che il livello di industrializzazione è un quinto di quello cinese). Il sorpasso dell’India sulla Cina dell’aprile 2023 era da tempo previsto e atteso in considerazione del più favorevole saldo naturale indiano. La distanza tra i due Paesi andrà peraltro tendenzialmente ad aumentare. La Cina sta peraltro già lavorando per compensare gli squilibri. Nel 2015 si era deciso l’abbandono della politica del “figlio unico” e segni di reazione, seppure non eclatanti, cominciano a comparire. Ma ovviamente i processi di aggiustamento non sono rapidi. Le campagne, ad esempio, nel corso del decennio trascorso tra i due censimenti del 2010 e del 2020, si sono spopolate di altri 164 milioni di abitanti a fronte dei centri urbani che ne hanno acquisiti 236 milioni (quasi i 2/3 dei cinesi vive nelle sconfinate metropoli). Ai fini del ragionamento, andrebbe poi aggiunto il basso tasso di fecondità combinato con un forte squilibrio di genere (sbilanciato per la modesta presenza femminile, conseguenza della pratica dell’aborto selettivo indotta dalla politica del figlio unico). Non da ultimo, potrebbe paradossalmente preoccupare anche il buon risultato ottenuto per l’istruzione. Nell’arco dello stesso decennio la quota dei laureati sulla popolazione è raddoppiata e anche qui le autorità cinesi si troveranno a ragionare sul lavoro futuro atteso da nuove masse di abitanti, magari di recente urbanizzazione e di maggiore livello di scolarizzazione. Sarà sicuramente interessante osservare le politiche che quel Paese porrà in atto, considerata pure la contrarietà storica della Cina ad utilizzare l’immigrazione straniera per ovviare eventuali carenze di manodopera, soluzione invece fondamentale per la flessibilità del lavoro statunitense.
Il Giappone detiene il record dell’anzianità e delle maggiori nazioni europee, seppure per grosse linee, si è già detto, né la Russia sembra nelle condizioni di poter ringiovanire.
Il Giappone è come già detto il Paese del primato. Vita media, speranza alla nascita, età mediana, ecc., più elevate, in sostanza il Paese dove si vive più a lungo e dove minore è il ricambio generazionale. Rispetto al “rinfoltimento” demografico si può dire che presenta i più bassi fondamentali; va però considerato che, seppure lentamente, ha iniziato a intraprendere provvedimenti per ovviare i problemi sull’offerta di lavoro dettati dal buco nella fascia di popolazione in età attiva, incentivando la crescita dell’occupazione femminile e ritardando l’età pensionabile. Negli ultimi anni si rileva peraltro una prudente apertura all’immigrazione.
Sembrano valutazioni banali ma nelle strategie di una superpotenza l’equazione braccia=potenza continua ad avere un peso non irrilevante, magari meno calibrato sulle memorie militari ma sicuramente presente nelle valutazioni sulla futura stabilità economica del Paese.
Giuseppe Peleggi e Giovanna Mellano, Ufficio Studi Enpaia