di Pier Paolo Baretta, Assessore bilancio e patrimonio Comune di Napoli
Parlando a Napoli, in occasione della firma del «Patto per Napoli» (l’accordo tra Governo e Comune per evitare il dissesto finanziario della città), il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha imperniato il suo discorso sulla centralità del Mezzogiorno nello sviluppo del Paese e dell’Europa. Lo ha fatto rifuggendo da ogni accento compassionevole o consolatorio, soffermandosi più sulle opportunità che sui ritardi e indicando nel PNRR l’occasione storica da non perdere. Perché non ci fossero equivoci, Draghi ha detto chiaramente che il (nuovo) meridionalismo che ci serve deve essere sgombro dal tradizionale vittimismo, troppo spesso alimentato da una politica che fonda il consenso sulla rendita di posizione che deriva dalla denuncia, più che su proposte e su azioni di vero cambiamento. Infine, ha richiamato Napoli – la più grande città del Sud, la terza d’Italia e tra le prime dieci metropoli europee – alla responsabilità di guidare il processo di riscatto e rilancio. Pochi giorni dopo, Draghi ha ripetuto gli stessi concetti a Sorrento, alla presenza del Presidente della Repubblica, del Presidente della Camera e di buona parte del Governo.
Siamo di fronte all’ennesimo, ma nel caso di Draghi sincero, richiamo volontaristico e alla fine retorico, già sentito mille e mille volte, sul Mezzogiorno, sui suoi ritardi e sulla necessità di ridurre la ormai secolare distanza economica e sociale col resto del paese e dell’Europa? O esiste qualche novità che può far pensare davvero a una riapertura della «questione meridionale» nell’agenda politica italiana? A un nuovo inizio? All’indicazione di un percorso politico che richiede nuovi programmi e, soprattutto, nuovi protagonisti? E quali potrebbero esserne gli interpreti? E, infine, Draghi stesso potrà (o vorrà!) essere il riferimento di questo «movimento»?
Proviamo a rispondere a queste domande considerando il contesto in cui si collocano. A cominciare proprio dalla vicenda Napoli.
Le elezioni comunali dell’ottobre 2021 hanno visto la schiacciante vittoria (con oltre il 70%) del professore Gaetano Manfredi, ex rettore della prestigiosa Università napoletana Federico II e già ministro della Università e della ricerca nel governo Conte 2. Attorno a questa candidatura ha preso corpo una vera e propria questione nazionale che spiega alcuni degli accenti di Draghi.
Dopo aver visto i conti del Comune, e dopo aver constatato il baratro finanziario, Manfredi era orientato a non accettare. Sono quindi scesi in campo i principali esponenti nazionali dell’ampia coalizione locale che sosteneva la sua candidatura – Letta, Conte, Speranza – sottoscrivendo con un «patto per Napoli» l’impegno a «rendere sostenibile il debito e liberare risorse per il rilancio della città» attraverso un ingente sostegno finanziario statale. Una scelta non abituale per una campagna elettorale locale, che ne ha esteso la portata, dando vita a un progetto politico che, pur nella ovvia distinzione degli schieramenti elettorali, ha coinvolto esplicitamente anche Forza Italia, attraverso l’attivo impegno della ministra per il Sud Mara Carfagna. Salvo qualche mugugno leghista (ma, va riconosciuto, senza particolare insistenza), il fronte politico nazionale si è trovato unito nell’intenzione di qualificare la scadenza elettorale napoletana come occasione per dare un futuro alla città: attorno alla candidatura di Manfredi si è costruito quindi qualcosa di più di un accordo elettorale, per quanto importante.
Vinte le elezioni, l’impegno assunto andava onorato. Se Napoli è una questione nazionale, merita una risposta nazionale. Nell’incarico che mi è stato affidato di assessore al bilancio (motivato proprio con la dimensione nazionale del problema Napoli) ho potuto mettere subito alla prova la veridicità di questa prospettiva, avviando il complesso negoziato con il Governo che ha portato al Patto per Napoli e al discorso di Draghi da cui siamo partiti…
E sempre da quel discorso ricaviamo un secondo segnale di contesto che induce a immaginare una possibile nuova stagione per il Mezzogiorno: le ingenti risorse del PNRR. In generale non ci sono mai stati tanti soldi da spendere a disposizione delle comunità locali (ben superiori al piano Marshall!). Soprattutto per il Sud, al quale è destinato il 40% del valore complessivo assegnato all’Italia, l’occasione è irripetibile. Si potrà obiettare che verso Sud, come verso Nord in verità, sono state drenate nei decenni scorsi ingenti risorse, e che il Sud ha dimostrato una minore capacità di impiego. La cronica incapacità di impiego dei fondi pubblici assegnati al Sud dipende certamente da una gestione politica spesso inadeguata. Ma in ancora maggiore misura dalla scarsissima capacità progettuale ed esecutiva degli enti locali. A questi limiti si aggiunge la delicata questione della rendicontazione, che presuppone una buona gestione amministrativa anch’essa spesso mancante. Per evitare di non farcela anche questa volta bisogna ricorrere a una gestione coordinata, che aiuti le singole amministrazioni. Servono strutture centrali, regionali o, addirittura, interregionali di progettazione; uffici speciali di rendicontazione, rapidi corsi di formazione per gli operatori incaricati di gestire il PNRR. È anche l’occasione per un cambiamento della pubblica amministrazione: la Svimez potrebbe assolvere al compito di coordinare il tutto e la Cassa depositi e prestiti potrebbe diventare un vero raccordo degli investimenti pubblici e privati.
Infine, esiste un terzo elemento sul quale agire per far sì che questa fase rappresenti davvero una svolta: la presenza nel Mezzogiorno di un bacino di giovani largamente superiore al resto d’Italia. Tra loro continuano ad essere troppi, purtroppo, quelli che resterebbero volentieri ma se ne vanno per mancanza di opportunità. Nonostante ciò, la presenza giovanile è percentualmente rilevante; un vantaggio competitivo da sfruttare. Per riuscirci bisogna mettere in relazione tra loro le Università meridionali che costituiscono una straordinaria rete di conoscenza e ricerca. È necessario cioè affermare una idea unitaria di sviluppo del Sud. E c’è bisogno di un promotore di questa prospettiva: probabilmente proprio la Federico II, per la sua storia e la sua dimensione, potrebbe esserlo. Anche le Associazioni di impresa e del lavoro dovrebbero superare la frantumazione territoriale e presentarsi al dibattito nazionale con una progettualità meridionale unitaria.
Personalmente penso da tempo che esistano una questione settentrionale e una meridionale, non in conflitto, e che solo attraverso il rispettivo riconoscimento delle diverse specificità si possa raggiungere l’obiettivo dell’unità nazionale materiale. Questo approccio… «federale» è il contrario delle teorie autonomiste – per esempio di Zaia – ed è anche alternativo a quelle di totale e vittimistica dipendenza dal centro nazionale ancora presenti in una certa cultura politica meridionale. Quella che Draghi ha giustamente contestato nei suoi discorsi.
Se poi guardiamo, solo per titoli, al merito delle potenzialità di sviluppo, vediamo che il Sud può giocare un poker d’assi. Il primo riguarda lo sviluppo della industria manifatturiera. Nonostante la crisi di importanti aziende in settori storicamente presenti nel Mezzogiorno (elettrodomestici, siderurgia, automotiv) sia stata e sia tutt’ora pesante, la rete industriale del Sud – in Puglia, in Sicilia, oltre che in Campania, limitandoci solo alle regioni più grandi – non è stata azzerata. D’altra parte, l’Italia è la seconda potenza industriale europea e il contributo del Sud a questo risultato è rilevante. L’innovazione tecnologica ha solide basi nelle imprese meridionali e su essa bisogna investire ancora di più. Le condizioni ci sono e il PNRR serve proprio a questo. Se penso, in particolare, alla filiera agroalimentare, e Napoli ha proprio l’incarico di occuparsene, intravedo una straordinaria fonte di sviluppo.
Il secondo asso è rappresentato dalla potenzialità turistico culturale, che è di prim’ordine. L’Italia è il Paese più ricco al mondo per patrimonio culturale e gode del vantaggio paesaggistico naturale che ben conosciamo. È innegabile quanto il Sud contribuisca a questi primati. L’affermazione recente del ministro Franceschini – «Napoli può essere una capitale internazionale della cultura» – è pertinente e realistica, trainante per tutta la potenzialità meridionale. L’esplosione turistica recente conferma questa possibilità.
Il terzo asso deriva dalla invidiabile posizione geografica dell’Italia: una piattaforma che penetra nel cuore del Mediterraneo, tornato a essere il centro dei traffici e degli interessi. Il Sud rappresenta il tratto terminale di questa piattaforma e una buona logistica è una vera alternativa agli scali del Nord Europa. Tanto più ora che la crisi degli approvvigionamenti, indotta dalla guerra russo-ucraina, sposta l’attenzione verso i paesi del Nord Africa che si affacciano nel Mediterraneo.
Infine, il quarto asso: la politica. Lo scenario internazionale in rapida evoluzione impone la necessità, per l’Italia e l’Europa, di dotarsi in breve tempo di una nuova strategia di relazioni, più sistematica verso il Nord Africa e il Vicino Oriente. Se mancasse un ruolo attivo del Mezzogiorno d’Italia, questi percorsi sarebbero inesorabilmente compromessi.
Il contesto, dunque, è favorevole. Le risorse ci sono. Lo Stato intende favorire i processi. Le urgenze internazionali premono. Le condizioni perché il Mezzogiorno diventi risorsa e non problema ci sono tutte.
Serve, dunque, la volontà politica…
Una nuova politica, sostenuta da nuovi protagonisti.