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    Home»Economia»I dazi si possono cancellare con una moratoria di 6 mesi e un nuovo negoziato Usa-Ue
    18 Febbraio 2021

    I dazi si possono cancellare con una moratoria di 6 mesi e un nuovo negoziato Usa-Ue

    Paolo De Castro ha presentato una proposta di moratoria di sei mesi per i dazi a stelle e strisce applicati sui prodotti europei, per riavviare un negoziato tra alleati che porti al superamento delle misure di ritorsione introdotte da Trump. Questo e molto altro nell’intervista rilasciata a Previdenza Agricola.
    By Enpaia
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    Dai dazi Usa sui prodotti europei al Green Deal con la strategia Farm To Fork; dalla politica agricola comune europea con annesse garanzie sociali a una politica migratoria che regolarizzi le presenze nell’interesse di lavoratori e imprese; fino agli effetti della Brexit sull’export del made in Italy e alle etichettature “nutrizionali” dei prodotti. Su questi temi abbiamo intervistato l’On. Paolo De Castro, parlamentare dem e membro della commissione Bilanci del Parlamento europeo, che di recente ha presentato una proposta di moratoria di sei mesi per i dazi a stelle e strisce applicati sui prodotti europei, per riavviare un negoziato tra alleati che porti al superamento delle misure di ritorsione introdotte dall’amministrazione Trump.

    Onorevole De Castro, nelle ultime settimane si è molto dibattuto sul tema dei dazi tra Usa e Ue. Si intravede qualche spiraglio per una soluzione pacifica di una guerra commerciale che ha già creato tanti danni?
    L’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti riapre la possibilità per l’Unione europea di rinegoziare l’applicazione dei dazi commerciali aggiuntivi che dall’ottobre 2019 gravano su molti nostri prodotti, tra cui eccellenze dell’agroalimentare italiano come formaggi e salumi. Le tariffe al 25% introdotte dall’amministrazione Trump, dopo il via libera dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) per la vicenda Boeing-Airbus, hanno già provocato una perdita per le nostre esportazioni di circa mezzo miliardo di euro. E se la cosa perdurasse, il danno economico non potrebbe che aumentare. Non dimentichiamo che gli Usa rappresentano il primo mercato extra-europeo per l’Italia, e quindi voglio sperare si creino le condizioni per superare questo conflitto commerciale. Anche perché, la stessa Wto, nel gennaio scorso ha autorizzato l’Unione ad applicare a sua volta dazi sui prodotti importati da Oltreoceano. Creando rischi di nuove ritorsioni e incertezze tra gli operatori.

    Intanto, per sancire il rapporto costruttivo che storicamente ci lega agli Stati Uniti, ho presentato personalmente una proposta, fatta propria dalla Commissione Agricoltura al Parlamento europeo, di richiedere una moratoria formale di almeno sei mesi per i dazi tuttora applicati sui prodotti europei. In questo lasso di tempo potremmo riavviare un dialogo costruttivo tra alleati e superare con una soluzione negoziale definitiva la stagione delle misure di ritorsione, non più sostenibile per i nostri produttori.

    In commissione Agricoltura si parla molto della strategia “Farm to Fork”: potrebbe farci una panoramica su questo progetto e quali obiettivi si pone?
    Il Green Deal lanciato l’anno scorso dalla Commissione Ue, con la sua Strategia ‘Farm to Fork’ in particolare, da qui al 2030 punta a dimezzare il ricorso a fitofarmaci di sintesi chimica in agricoltura e ad antibiotici negli allevamenti, a ridurre dei 20% l’uso di fertilizzanti, portando ad almeno il 25% del totale le superfici coltivate con metodo biologico. Obiettivi che in linea di principio ci vede d’accordo anche al Parlamento europeo. Ma per puntare a un’agricoltura più green e rispettosa dell’ambiente, non dovremo perdere di vista la tutela del reddito degli agricoltori, mettendo gli stessi nelle condizioni di ricorrere a input produttivi e tecnologie all’avanguardia con adeguate risorse finanziarie.

    Al tempo stesso non possiamo dimenticare che l’Unione europea è il primo importatore ed esportatore mondiale di beni agroalimentari. E questa è una posizione che dobbiamo sfruttare per definire standard internazionali di sostenibilità non solo ambientale, ma anche sociale e di rispetto dei diritti umani e dei lavoratori.

    Si parla di un accordo per una Politica agricola comune entro giugno. Che ruolo giocheranno le condizionalità sociali? Pensa che ci saranno Paesi che faranno resistenza a queste condizionalità?
    La dimensione sociale dovrà essere parte integrante della nuova Politica agricola comune. La pandemia ha messo in luce il ruolo fondamentale di agricoltori e lavoratori agricoli, pronti a mettere a repentaglio la propria salute pur di continuare a far arrivare sulle nostre tavole cibo sufficiente e di qualità. Proprio per questo, non possiamo più accettare che la PAC sovvenzioni anche quelle aziende che non rispettano appieno i diritti dei propri lavoratori: pur di garantire una maggiore sostenibilità ambientale del settore, non vogliamo che venga messa da parte la sostenibilità sociale delle produzioni. Per questo, nonostante alcuni Stati membri vedano la posizione del Parlamento europeo come un ingiustificato appesantimento burocratico, continueremo a lavorare per raggiungere questo obiettivo.

     Ricollegandoci alle condizionalità sociali, cosa ne pensa della sanatoria per gli immigrati attuata in primavera dal governo, e che riguardava anche lavoratori stagionali impiegati nell’agricoltura? Un commento e se riscontra un impatto tangibile?
    Vale la pena sottolineare come le nostre produzioni più caratteristiche, dall’ortofrutta al vino, dai salumi ai formaggi, sono tutte produzioni ad altissimo valore aggiunto e che richiedono alti  livelli di manodopera: una manodopera che purtroppo è sempre più difficile reperire solo all’interno dei nostri confini. Per questo, dall’inizio della pandemia, ci siamo impegnati per garantire, nel rispetto di rigorosi protocolli sanitari, la libera circolazione dei lavoratori europei che tra la primavera e l’autunno arrivano nel nostro paese per dare man forte ai produttori. Al tempo stesso, non possiamo fare finta di niente di fronte ai numerosi immigrati extra-europei che vogliono darsi da fare, accettando di svolgere attività che molti italiani non ha più interesse a svolgere: in tutti questi casi, ritengo quanto mai necessaria una regolarizzazione la più rapida possibile, nell’interesse dei lavoratori e degli imprenditori agricoli.

     La Brexit è ormai realtà da qualche mese, si sentono già gli effetti sull’import e l’export agricoli?
    Gli effetti, anche se per ora non quantificabili, si fanno già sentire perché da gennaio 2021 la Gran Bretagna è di fatto un Paese extra-Ue. E questo negli scambi commerciali con l’Unione si traduce in una dilatazione  dei tempi di percorrenza delle merci, code per le operazioni doganali, nuove norme fitosanitarie da rispettare, burocrazia e costi extra più o meno evidenti. Ricordo che l’anno scorso l’Italia ha esportato Oltremanica prodotti agroalimentari per un valore di circa 3,4 miliardi di euro, con un aumento del 2,3% rispetto al 2019, nonostante la fase recessiva provocata dalla pandemia da Covid. Solo le vendite di vini made in Italy si aggirano intorno ai 750 milioni, ma con il post-Brexit questa performance è a rischio e gli operatori del settore già lamentano disagi più allarmanti di quanto previsto, con problemi sul piano logistico, rallentamenti nel tratto dell’Eurotunnel e un sistema doganale inglese in sofferenza a causa del nuovo carico di lavoro. La stessa industria del trasporto merci britannica ha duramente criticato il governo per non avere opportunamente valutato le difficoltà che l’accordo di recesso ha provocato in termini di ostacoli agli scambi, provocando un crollo di quasi il 70%, rispetto a gennaio 2020, delle esportazioni dal Regno Unito verso l’Ue.

    Ricordiamo che l’Italia figura al quarto posto tra i Paesi esportatori di cibi e bevande dopo Germania, Francia e Stati Uniti. Oltre al vino, tra i prodotti più venduti ci sono i derivati del pomodoro, pasta, formaggi, salumi e olio d’oliva.

    La Francia ha proposto e introdotto nel suo territorio il sistema del “Nutriscore” per tutti gli alimenti venduti nei supermercati. Un sistema che classifica l’alimento da “A” a “G” a seconda delle sue proprietà nutritive. Ha riscosso molto successo, soprattutto fra la popolazione più giovane. L’Italia però insieme ad altri Paesi hanno criticato questo sistema, per quali motivi?
    Quella sui sistemi di etichettatura nutrizionale degli alimenti è una battaglia aperta. La Francia ha adottato su base volontaria il meccanismo a semaforo con la classificazione dei cibi in base ai colori verde, arancione e rosso che scattano a seconda del contenuto calorico, di grassi, sale, zuccheri, senza fornire però indicazioni sulle quantità consigliate dei prodotti stessi. E al sistema francese Nutriscore hanno via via aderito altri Paesi europei: dalla Svizzera al Lussemburgo, dal Belgio all’Olanda, dalla Germania fino alla Spagna, che ha annunciato di volerlo adottare a partire da aprile. Mentre l’Italia, per ora in compagnia di altri sei partner europei, si oppone decisamente sostenendo che quel sistema non informa correttamente i consumatori, inducendoli a scelte affrettate e fuorvianti al momento dell’acquisto. In alternativa, il nostro Paese ha proposto e adottato il sistema ‘Nutrinform Battery’ che esprime i valori nutrizionali di ciascun prodotto tenendo in considerazione il consumo di una porzione e permettendo quindi al consumatore di avere due tipi di informazioni importantissime: il contenuto energetico dato da calorie, grassi, zuccheri e sale, e un’indicazione delle quantità consigliate del prodotto stesso. La Commissione Ue ha annunciato che presenterà una proposta di armonizzazione dei sistemi a livello europeo nel 2022. Il dibattito, insomma, è aperto. E il Parlamento Ue farà la sua parte nel ruolo di co-legislatore.

    A cura di Giacomo Daniele Bove

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