Ci sono leggi che passano, altre che restano. Alcune durano una stagione, altre lasciano un segno nel tempo. Poche, pochissime, cambiano la struttura della società e ridefiniscono il modo in cui una Repubblica guarda a se stessa. Lo Statuto dei Lavoratori, approvato il 20 maggio 1970, appartiene a quest’ultima categoria. Non fu solo un insieme di norme a tutela del lavoro subordinato, né si limitò a colmare lacune procedurali nella disciplina dei rapporti industriali. Fu, in senso pieno, un gesto politico e culturale con cui la Costituzione, per la prima volta in modo sistemico, fece ingresso nei luoghi della produzione, sancendo che anche dentro le mura di un’impresa il lavoratore restava cittadino, titolare di diritti fondamentali, persona prima che forza-lavoro.
La genesi dello Statuto affonda le radici in una stagione intensa, segnata da conflitti ma anche da visioni alte, in cui la domanda di giustizia sociale si fece materia giuridica e proposta riformatrice. Lo Statuto fu l’esito maturo di un percorso cominciato già negli anni ’50, ma che solo nella seconda metà del decennio successivo trovò una piena accelerazione grazie all’impegno di figure di spicco come Gino Giugni, raffinato giuslavorista e architetto della norma, Giacomo Brodolini, allora Ministro del Lavoro, e Carlo Donat-Cattin, che dopo la morte prematura del collega ne raccolse il testimone portando il disegno di legge fino all’approvazione parlamentare. Tutti animati da una comune consapevolezza: che la democrazia non può arrestarsi alle soglie dell’impresa e che la libertà non può essere sospesa nel tempo del lavoro.
In quel contesto l’Italia si stava trasformando. La grande fabbrica fordista concentrava masse di lavoratori spesso privi di strumenti di tutela, sottoposti a poteri unilaterali e privi di rappresentanza reale. Il contratto di lavoro, formalmente paritario, si svolgeva in un contesto segnato da profonde asimmetrie materiali. Il licenziamento era un atto discrezionale, la libertà sindacale spesso ostacolata, le forme di controllo sui dipendenti invasive e arbitrarie. Lo Statuto dei Lavoratori intervenne a porre un argine a tutto questo: limitò il potere datoriale attraverso norme di garanzia, tutelò la libertà di opinione del lavoratore, vietò le discriminazioni politiche, sindacali e religiose, introdusse regole sulla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, disciplinò il diritto di assemblea e fondò, di fatto, il moderno diritto del lavoro italiano su un nuovo patto sociale.
Ma lo Statuto non fu solo un elenco di diritti, bensì una dichiarazione di principio sul ruolo del lavoro nella costruzione dell’identità repubblicana. Dichiarò che il lavoro, oltre a essere fattore di produzione, è anche spazio di relazione, luogo in cui si esercita la cittadinanza, momento essenziale per la dignità della persona. Per questo, più che una legge settoriale, fu una legge costituzionale in senso sostanziale. Trasformò in norme vive i principi dell’articolo 1 e dell’articolo 3 della Carta, promuovendo l’uguaglianza sostanziale in un contesto, quello dell’impresa, storicamente sottratto alla piena applicazione dei diritti fondamentali.
Fu anche un’opera di mediazione politica, frutto di una volontà riformista capace di coniugare conflitto e responsabilità istituzionale. Donat-Cattin seppe interpretare le istanze del movimento operaio con la forza di un ministro di governo, tenendo insieme la spinta dal basso e la cornice dell’interesse generale. Non si trattò di una resa, ma di una sintesi alta, che tradusse il conflitto in regola, la protesta in riforma, senza rinunciare all’ambizione di trasformare in profondità i rapporti sociali.
Oggi, cinquantacinque anni dopo, lo Statuto dei Lavoratori ci interroga non come reperto storico ma come sfida ancora aperta. Il lavoro si è profondamente modificato. La centralità della grande fabbrica ha lasciato spazio a un sistema produttivo più disperso, frammentato e flessibile. Le nuove tecnologie hanno generato forme di controllo pervasivo e modalità di prestazione che sfuggono alle categorie giuridiche tradizionali. La precarietà non è più eccezione ma condizione diffusa, il lavoro povero è realtà strutturale, la rappresentanza fatica a intercettare le nuove soggettività professionali. Eppure, mai come oggi, torna forte la domanda di tutele, di giustizia, di riconoscimento.
Di fronte a questa realtà, lo Statuto va ripensato, non superato. Serve una nuova generazione di diritti del lavoro che ne conservi l’impianto valoriale, ma che sia capace di rispondere alle trasformazioni del presente. Serve una riforma che non si limiti a inseguire la flessibilità, ma che abbia il coraggio di porre al centro la persona che lavora, la sua sicurezza, la sua libertà, il suo potere di incidere. Serve un nuovo Statuto, che includa chi oggi è fuori dalle garanzie, che riconosca nuove forme di rappresentanza, che affronti la questione salariale, la parità di genere, la salute mentale, la sostenibilità sociale delle trasformazioni tecnologiche.
Raccontare lo Statuto dei Lavoratori oggi non significa celebrare una memoria, significa rivendicare un’idea di civiltà che ha ancora molto da insegnare. Significa ricordare che dove c’è un lavoratore lì dev’esserci la Repubblica, con tutta la sua forza di legge e con tutto il suo dovere di giustizia. Significa affermare che non può esserci sviluppo senza diritti, e che ogni volta che si arretra sul lavoro, si arretra sulla democrazia.
Per questo, più che un anniversario, serve un appuntamento con la responsabilità: di chi lavora, di chi rappresenta, di chi governa. Perché è nei luoghi dove si fatica che si misura la tenuta morale di una Repubblica. E se davvero vogliamo che il lavoro torni ad essere un pilastro della nostra convivenza civile, dobbiamo avere il coraggio di scrivere un nuovo Statuto, capace di parlare non solo ai lavoratori del Novecento, ma a quelli, e sono tanti, che abitano il nostro tempo.