Il discorso sullo Stato dell’Unione pronunciato in questi giorni da Ursula von der Leyen al Parlamento europeo non ha avuto il tono di un rito istituzionale destinato a scivolare nella consuetudine, ma quello di un intervento concepito per segnare un confine netto tra un’Europa che si accontenta di vivere di inerzia e un’Europa che finalmente si assume il compito di essere attore geopolitico.
“Siamo in lotta per il nostro futuro” ha scandito la presidente della Commissione, sottolineando come la posta in gioco non riguardi più soltanto le guerre alle porte del continente, ma la possibilità concreta di determinare un destino comune in un mondo attraversato da tensioni geopolitiche sempre più vicine.
In questa confusione la memoria resta la bussola più affidabile, perché l’Unione si trova oggi a un tornante cruciale, probabilmente al passaggio più importante della sua storia. Dopo il 1945, Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer compresero che la pace non poteva poggiare su equilibri fragili o su trattati provvisori, ma doveva radicarsi in un’integrazione strutturale. In quella direzione, la nascita della Comunità del carbone e dell’acciaio fu un atto politico prima ancora che economico; trasformare ciò che aveva alimentato i conflitti in fondamento della cooperazione. Una lezione che oggi appare più attuale che mai, poiché l’Europa, stretta da instabilità (dall’aggressione russa in Ucraina alle tensioni mediorientali, dalle minacce ibride ai conflitti commerciali) non può illudersi di difendere valori e interessi restando prigioniera della frammentazione che ha polarizzato gli ultimi anni.
Von der Leyen ha insistito sulla necessità di emanciparsi dalle dipendenze strategiche, di rafforzare la capacità di difesa e di sostenere senza esitazioni Kiev, evocando strumenti concreti come un’alleanza europea dei droni e l’utilizzo dei beni russi congelati. Tuttavia, al di là delle singole proposte, il senso profondo del discorso è chiaro. Il tempo della politica minimale è scaduto e l’Unione, se intende sopravvivere come comunità politica e geografica (e non soltanto di mercato) deve trasformarsi definitivamente in soggetto politico dotato di credibilità e capacità di azione. Il cammino resta tuttavia irto di ostacoli.
La costruzione di una difesa comune resta minata da resistenze profonde. La più evidente è quella politica: molti governi continuano a considerare la sicurezza militare come terreno esclusivamente nazionale, brandendo la sovranità come baluardo contro qualsiasi forma di integrazione. È un riflesso che affonda le sue radici nella storia, perché la difesa è tradizionalmente percepita come l’ultimo presidio dell’indipendenza statale; eppure oggi questa logica si rivela insufficiente di fronte a minacce che non conoscono confini, dal terrorismo al cyberspazio. A questa diffidenza politica si somma la questione economica: mettere in campo capacità comuni significa mobilitare investimenti ingenti, coordinati e soprattutto vincolanti, un impegno che va ben oltre la logica dei bilanci nazionali e che richiede una vera scelta di solidarietà tra Stati membri. Senza un salto di qualità, il rischio è di disperdere risorse in duplicazioni e sovrapposizioni, perpetuando un sistema incapace di generare massa critica. Infine, c’è la dimensione democratica: una difesa europea non può nascere nei laboratori delle istituzioni senza il coinvolgimento dei cittadini, perché senza consenso rischierebbe di essere percepita come un progetto tecnocratico, distante dalla vita reale e dalle paure quotidiane. Rendere i cittadini partecipi, spiegare che la sicurezza comune è garanzia di libertà e non di militarizzazione, diventa dunque condizione essenziale affinché l’Europa possa davvero parlare con una voce sola.
Il richiamo ai padri fondatori va in questa direzione, nella capacità di una visione costruttiva, e non di un mero esercizio nostalgico. Anche allora le resistenze erano forti, eppure da scelte impopolari nacque il percorso che ha garantito all’Europa decenni di stabilità di cui fino ad oggi abbiamo beneficiato. In questo tempo che ci è dato vivere, serve la stessa lungimiranza, superare l’unanimità paralizzante, dotarsi di strumenti militari credibili (in questa direzione va il programma REarms Europe) e soprattutto parlare con una sola voce nei grandi scenari internazionali. Non militarizzare l’Unione, ma assicurarle autonomia, dignità e capacità decisionale in un mondo che non aspetta più i suoi ritardi.
In definitiva, la storia ci consegna un’occasione irripetibile, quella di trasformare l’urgenza in progetto e l’emergenza in visione, come seppero fare De Gasperi, Schuman e Adenauer quando decisero che il coraggio della politica valeva più della comodità dell’attendismo.