di Ettore Prandini, Presidente Coldiretti
L’emergenza Covid prima e la guerra in Ucraina, oggi, con i rischi di una crisi alimentare globale che stanno denunciando anche Governi e Organizzazioni come l’Onu e il Fondo monetario internazionale, hanno spostato l’attenzione sul cibo balzato al centro nelle strategie geopolitiche. E oggi si parla del grano come di un elemento da cui partire addirittura per avviare la costruzione di un percorso di pace. L’impennata dei costi di produzione che avevamo denunciato ben prima che esplodesse il conflitto nel cuore dell’Europa stava già creando molti problemi alle nostre aziende. E da tempo sosteniamo la necessità di puntare sull’autosufficienza alimentare. A far esplodere una situazione già complessa per gli effetti del Covid, ma anche delle condizioni climatiche avverse che hanno tagliato i raccolti in molti Paesi asiatici e africani, è intervenuta la guerra. Ed è così scattato l’allarme. In pericolo è l’approvvigionamento alimentare globale. Con ricadute pesanti per i Paesi più fragili, come ha denunciato l’Onu. Con il crollo della produzione di cereali ucraini da cui dipendono gli approvvigionamenti di Paesi soprattutto africani si è scatenata una tempesta perfetta che ha di fatto rivoluzionato i commerci mondiali. L’Ucraina infatti è al sesto posto tra gli esportatori mondiali e per quest’anno i raccolti subiranno un crollo di circa il 40%. Che si aggiunge alla riduzione della produzione mondiale che, secondo le stime dell’International Grains Council, nel 2022/2023 caleranno a 769 milioni di tonnellate anche per effetto della riduzione negli Stati Uniti e in India. Una situazione che avrà effetti pesanti in Paesi come l’Egitto, l’Iran e il Bangladesh che acquistano più del 60% del proprio grano da Russia e Ucraina, ma anche Libano, Tunisia, Yemen Libia e Pakistan sono fortemente dipendenti dalle forniture dei due Paesi in conflitto. La carenza di materie prima porta a ulteriori aumenti dei prezzi. E in paesi dove il pane è il prodotto principe dell’alimentazione i rischi di tensioni sociali sono dietro l’angolo.
Per i paesi europei e per il nostro in particolare il problema non è quello della mancanza di prodotto, ma delle speculazioni che si spostano dai mercati finanziari ai metalli preziosi come l’oro fino ai prodotti agricoli dove le quotazioni dipendono sempre meno dall’andamento reale della domanda e dell’offerta e sempre più dai movimenti finanziari e dalle strategie di mercato che trovano nei contratti derivati “future” uno strumento su cui chiunque può investire acquistando e vendendo solo virtualmente il prodotto. Una situazione che determina ricadute sul consumo che penalizzano doppiamente gli agricoltori, piegati come imprenditori dal caro costi, e come consumatori. Con il pericolo di allontanarli sempre di più dall’attività nei campi. E sarebbe un disastro in questo momento in cui si avverte la criticità dei deficit produttivi. Siamo infatti fortemente dipendenti dalle importazioni per alcuni prodotti chiave: dal grano tenero (64%) al mais (53%) utilizzato per l’alimentazione del bestiame. Per l’Italia poi c’è anche il rischio di dover affrontare un’ulteriore ondata di flussi migratori. La fame spinge infatti ad abbandonare i propri territori e il nostro Paese in una posizione strategica nel Mediterraneo è in prima linea su questo fronte.
Un quadro complesso che deve spingere a scelte nuove nei confronti dell’agricoltura. Ben prima di questi ultimi anni segnati da pandemia e guerra avevamo chiesto con forza di investire nell’agroalimentare. Un settore che rappresenta un’eccellenza anche in termini economici e di occupazione. Dal campo alla ristorazione infatti il giro di affari è di 575 miliardi, pari al 25% del Pil, più di 4 milioni di occupati, 740mila aziende agricole, 70mila industrie alimentari, oltre 330mila realtà della ristorazione e 230mila punti vendita al dettaglio. Per questo siamo convinti che si deve partire da questi numeri per puntare dritti all’obiettivo dell’autosufficienza alimentare. L’Italia ha le potenzialità per farlo, ma serve un energico cambio di passo. Bisogna investire in nuove tecnologie, nelle infrastrutture, dai trasporti alla logistica e soprattutto su quelle idriche. L’acqua è essenziale per triplicare le rese, ma in Italia non riusciamo a trattenere quella piovana, siamo fermi a poco più dell’11%. Ecco perché come Coldiretti abbiamo messo a punto un progetto immediatamente cantierabile per realizzare bacini di accumulo che senza intaccare il paesaggio sono in grado di garantire acqua alla nostra agricoltura e non solo.
Deve produrre di più l’Unione europea per garantire cibo anche a quei Paesi che oggi sono in uno stato di assoluta insicurezza alimentare e lo deve fare l’Italia. Abbiamo toccato con mano l’importanza di poter disporre di cibo nei giorni più bui del lockdown. E’ stato solo grazie al forte impegno e al sacrificio dei nostri agricoltori che i cittadini hanno potuto disporre sempre di prodotti alimentari di qualità e sufficienti. Ma non bisogna rincorrere l’emergenza. Bisogna strutturare il sistema per rafforzare la produzione e garantire redditi adeguati. Questo è un elemento chiave. L’Unione europea ha “liberato” milioni di ettari per destinarli alle coltivazioni. In Italia sono disponibili 200mila ettari, ma se non si creano le condizioni per garantire redditi agli agricoltori sarà difficile utilizzarli. Finora infatti sembrava che l’unico obiettivo fosse di coprire i costi. Non è così, è giusto lavorare non per la sopravvivenza, ma per spuntare un reddito equo. Per questo come Coldiretti abbiamo fatto pressing sul Governo per i contratti di filiera, uno strumento finalizzato a garantire il giusto riconoscimento economico a tutti gli operatori.
Così come abbiamo puntato molto sulla normativa di contrasto alle pratiche commerciali sleali perché non è più tollerabile che al produttore finiscano pochi centesimi a fronte di prezzi sostenuti sullo scaffale. Siamo costretti a importare materie prime proprio per i bassi compensi riconosciuti agli agricoltori ed è questo il motivo per cui l’agricoltura italiana si è impoverita. Si è infatti ridotta di 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi dieci anni. E’ scomparso nello stesso periodo anche un campo di grano su cinque con la perdita di mezzo milione di ettari coltivati. Ma non ci stiamo più. Si deve cambiare registro. Questo è quello che la Coldiretti intende per sovranismo alimentare. Che non significa chiudersi, perché siamo sostenitori dell’internazionalizzazione. E lo dimostriamo con i numeri. L’export è un motore importante per il nostro sistema agroalimentare, con oltre 52 miliardi messi a segno nel 2021 e che si avviano ad aumentare quest’anno. Siamo pronti alla competizione, perché possiamo schierare eccellenze in tutti i settori che incassano consensi mondiali e che addirittura sono super copiate come dimostrano gli oltre 100 miliardi di italian sounding nel mondo. Ma vogliamo competere alla pari, alle stesse condizioni. Questo è il sovranismo secondo Coldiretti. Un fronte su cui non siamo soli. Nel nuovo Governo Macron il ministero dell’Agricoltura è diventato anche della Sovranità alimentare. Alla luce di tutto quello che è successo negli ultimi due anni e che stiamo affrontando in questi mesi, dal 24 febbraio, la scelta della Francia deve far riflettere.