di Tiziana Stallone, Presidente Cassa Biologi e Vice Presidente Adepp
Nei miei otto anni di presidenza di un Ente di previdenza ho imparato che il sistema previdenziale e pensionistico segue, in qualche modo, le regole del nostro cervello, regole semplici ma allo stesso tempo molto complesse: miliardi di cellule hanno un compito ed una funzione assegnata ben precisa, se una sola di queste non segue la sua funzione genetica il corpo nel suo complesso va in sofferenza.
Ho più volte riflettuto sul principio dell’equilibrio perfetto e come lo stesso si adatta al sistema previdenziale. Le regole e le condizioni che disciplinano la fase di accumulo previdenziale durante la vita lavorativa sono intimamente interconnesse con le regole e le condizioni che disciplinano la fase di erogazione della prestazione pensionistica. Se una di queste regole o condizioni non viene rispettata il rischio è la sofferenza dell’intero sistema previdenziale, il rischio ulteriore è di mortificare l’equilibrio intergenerazionale (ciò che responsabilmente dobbiamo garantire), creando vantaggi temporanei per poche categorie o per pochi che potranno privilegiarsi a discapito ancora una volta dei giovani.
Sarebbe ovviamente un errore mistificare qualsiasi proposta di riforma del sistema previdenziale o del sistema pensionistico: ciascuna ha come obiettivo esplicito il miglioramento di un qualcosa. Per i Governi tecnici la preoccupazione, per lo più, è stata quella di migliorare e di puntellare la sostenibilità del sistema a “discapito” del lavoratore che vede allontanarsi il “giorno della pensione” o “diminuire l’assegno della pensione” (così la riforma Fornero; ma la stessa riforma quota 102 del Governo Draghi ha allontanato di due anni – dai 62 ai 64 anni, lasciando inalterati i 38 di contribuzione). Per il Governo politico al contrario l’obiettivo è un mix: un occhio alla sostenibilità, ma un occhio particolare o più attento alla soddisfazione del lavoratore.
Entrambe, però, non possono prescindere dal rispettare il principio che ho richiamato dell’equilibrio perfetto.
Riassumiamo e semplifichiamo al massimo, prima di tutto, le regole del sistema, e ricordiamo l’assunto generale: per conseguire la pensione anticipata sono richiesti 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi di contributi pe le donne, e per conseguire la pensione di vecchiaia occorrono i 67 anni di età.
Andiamo alla proposta Quota 103 e vediamo sinteticamente cosa ha di diverso rispetto alla Quota 100 e alla Quota 102. Dal 2019 il sistema previdenziale è categorizzato in Quote!
Anno 2019 – 2021. La Quota 100 (introdotta nel 2018 dal governo di coalizione Lega – 5 Stelle, mantenuta dal successivo governo Pd – 5 Stelle) richiedeva per maturare il diritto alla pensione 62 anni di età e 38 anni di contributi.
Anno 2022. La Quota 102 (misura ponte per un anno del Governo Draghi) richiedeva 64 anni di età e 38 anni di contributi.
Anno 2023. La Quota 103 (proposta Governo Meloni, aumenta nuovamente ma non di molto la platea) richiedendo 62 anni di età e 41 anni di contributi.
Ogni anno si cambiano le regole, seppur con piccoli ritocchi. Ciò che non mi convince è la consapevolezza del legislatore o dei Governi proponenti della TEMPORANEITA’ e la consapevolezza della non sostenibilità implicita, che comporta – dal mio punto di vista – una iniquità anzi due iniquità.
La prima iniquità è legata al termine della riforma: si è tanto discusso sul come un lavoratore che aveva compiuto i 62 anni il 31 dicembre 2022 avrebbe potuto richiedere la pensione qualora avesse accumulato 38 anni di contributi, mentre il suo collega che compiva i 62 anni il 01 gennaio 2023 – non rientrando più nel termine di vigenza della Quota (perché scaduta, termine orrendo ma inciso) avrebbe potuto presentare la domanda di pensione solo nel 2027, cioè dopo cinque anni, rientrando nella regola generale dei 67 anni per l’attuazione della “vecchiaia”.
La seconda iniquità è intergenerazionale ed è legata ai costi stimati delle singole Quote: dal miliardo di euro fino ai venti miliardi di euro e più. Solo in pochi se ne avvantaggiano e sicuramente tra questi pochi sono esclusi i giovani e saranno sicuramente esclusi nel futuro perché le Quote saranno difficilmente riproponibili!
Il rischio che intravedo, rispetto al principio dell’equilibrio perfetto, è il contrapporsi di incertezze ed iniquità.
Un altro obiettivo meritevole prefissato dal legislatore con la proposizione di tutte le “Quote” è l’”effetto altalena”: facilitare il pensionamento avvia per contraccolpo un processo di assunzione, i giovani possono trovare più facilmente occupazione. Purtroppo, i dati hanno dimostrato che questo assioma è sbagliato e ha portato in alcuni casi ad un effetto distorsivo, favorendo il pensionamento anche di chi avrebbe continuato a lavorare e privando le aziende di personale esperto non immediatamente sostituibile per l’assenza della condizione della “formazione sul campo” che rende qualificato uno specifico lavoratore nel suo specifico campo in azienda.
Il mercato del lavoro segue regole diverse che negli ultimi decenni sono state modificate, perché necessariamente si è dovuto adeguare alla forte spinta portata dalla globalizzazione e a quella ulteriore dell’automatizzazione informatizzata dei processi di produzione.
La riforma è, poi, arricchita del “premio 10%” che sarebbe riconosciuto a chi rinvia l’uscita dal lavoro una volta raggiunti i requisiti per il pensionamento in quanto i contributi a carico del lavoratore dipendente verrebbero accreditati sulla busta paga.
Sono certa che queste mie riflessioni sono state analizzate dagli Onorevoli relatori e proponenti le diverse riforme, quello che posso affermare, ritornando e rivestendo i panni di Presidente di un Ente di previdenza che eroga prestazioni pensionistiche con il sistema contributivo puro, è che la regola della proporzionalità che è alla base del rapporto contributi versati e prestazione pensionistica certamente scongiura iniquità generazionali, sicuramente rende più sostenibile il sistema, sicuramente abbisogna di qualche ritocco per migliorare la crescita dei montanti degli iscritti, ad esempio con una politica fiscale più favorevole e con un costante impegno di chi è chiamato a gestire un Ente di previdenza, così da migliorare il tasso di sostituzione.
Ovviamente le stesse mie considerazioni sono frutto della consapevolezza che l’attuale bozza di riforma di alcuni dei punti del sistema previdenziale potrebbero essere stravolti in sede di discussione alle Camere, come sostanzialmente è avvenuto lo scorso anno, nonostante l’”arrabbiatura” del Capo del Governo Draghi.
Pensiamo all’apertura del dibattito sul testo di riforma dell’Opzione Donna”. Da un lato, è necessario superare la limitazione delle beneficiarie e, quindi, assicurare l’interesse ad ampliare la platea delle donne che dovrebbero poter usufruire del diritto ad una pensione anticipata, dall’altro, bisogna superare l’altra limitazione quella delle risorse disponibili, la cosiddetta copertura.
L’ultima versione di Opzione donna, limiterebbe la possibilità di andare in pensione anticipatamente alle donne con 60 anni di età, che può scendere di un anno per ogni figlio fino ad un massimo di due, che sono: a) caregiver, b) invalide almeno al 75%, c) licenziate o dipendenti di aziende in crisi. La norma penalizzerebbe però le donne che non hanno figli. Per questi motivi, il testo presentato alla Camera è ancora oggetto di discussione e già si vocifera che la Ministra Calderone, giustamente in considerazione della sensibilità dei nodi da sciogliere e dell’”ansia” dettata dalla ristrettezza dei tempi, paventa la possibilità di riconsiderare Opzione Donna all’interno di un testo di riforma più strutturata del sistema previdenziale da proporre il prossimo anno.
Altro tema interessante, per il quale dovremo attendere necessariamente la fine dell’iter Parlamentare per conoscere la vera disciplina, è quello del “congelamento”, più che taglio, delle rivalutazioni delle pensioni superiori a quattro volte il minimo, quindi delle pensioni lorde mensili superiori a 2.101,52 euro. Questa manovra biennale porterebbe ad un risparmio previdenziale di circa 37 miliardi e raffredderebbe nel futuro la crescita della spesa previdenziale del 17 / 18 miliardi. Questo perché la mancata indicizzazione delle pensioni per il biennio 2023 e 2024 farà sì che, dal 2025 – qualora riprendesse l’automatismo dell’adeguamento – il valore delle pensioni da indicizzare partirebbe da un valore più basso quale conseguenza proprio del congelamento dei due anni precedenti, che resta infatti strutturale.
Le discussioni, non peregrine, su questo punto sono: a) come si giustificherebbe la sproporzione tra il numero dei pensionati che saranno interessati dalla mancata indicizzazione biennale che risulta di gran lunga superiore rispetto ai pensionati che per contraccolpo beneficeranno della crescita delle pensioni al minimo (si parla di un quinto e di un ottavo)?; b) come si giustificherebbe l’opportunità di una simil manovra di risparmio proposta in un anno, come questo, dove la percentuale di crescita dell’inflazione sembra non aver fine? c) come si giustificherebbe la sproporzione tra il risparmio stimato in circa 37 miliardi di euro con i soli 726,4 milioni di euro messi sul tavolo per garantire tutte gli interventi sulle pensioni?